venerdì 27 luglio 2018


Prefazione 

dello scrittore, giornalista e saggista
dott. Ino Cardinale


È nato prima l'uovo o la gallina? Non è un paradosso o un modo di dire, è più che normale chiederselo!

È nato prima il testo delle favole esopiane riprodotte in traduzione italiana da Adalberto Magnelli e poi rese in siciliano da Gaspare Cucinella o la raccolta di illustrazioni ad acquerello, con didascalie e commento, di Salvo Galiano?

Senza attendere risposta, il pensiero ci porta proprio ad Esopo, vissuto nel VI secolo a. C. e, prima ancora, (forse) ai popoli del Medioriente: le prime favole giunte a noi, tramandate solo a voce, prima che si diffondessero in Grecia e nel mondo romano, sono dei Sumeri e quella famosa dell’usignolo e dello sparviero, prima che Esopo la inserisse nella sua raccolta, era già narrata da Esiodo in “Opere e giorni” (vv. 202-212), destinata al fratello Perse per dissuaderlo dal compiere ingiustizie nei suoi confronti.
Ma, comunque, seguiamo la convinzione generale che vede inventore della favola Esopo, scrittore greco di origine frigia, che pare fosse uno schiavo, vissuto a Samo, divenendo presto una figura leggendaria, e che morì a Delfi, ucciso sotto falsa accusa di empietà, per vendetta del popolo di cui aveva denunciato la cupidigia. (Lo scopo principale della sua opera, non era forse quello di fare riflettere sui costumi e sui comportamenti umani e diffondere una morale tra i suoi contemporanei!).

Fu lui a mettere per iscritto e a dare organicità a una lunga tradizione di oralità, che, mentre costituiva una ricchezza per l’intrinseca capacità di trasmissione, aveva in sé due grossi limiti. Il primo: accadeva di sentire versioni diverse di una stessa favola perché i narratori, restando fedeli allo schema fondamentale dei racconti, aggiungevano nuovi particolari, adattati alle circostanze. Il secondo: si correva il rischio, con la coeva scomparsa dei narratori, di vedere perduta tanta ricchezza.

Nel tempo saranno Fedro, romano, e, dopo secoli, nel Seicento, Jean de La Fontaine, francese, a far rivivere la tradizione favolistica. Il primo recuperò e mise in versi le favole di Esopo, abbellendole e, in un certo senso, completandole; il secondo le riscrisse, adattandole al gusto dell’epoca, offrendo un enorme contributo alla loro diffusione in tutta Europa.

Tornando subito ad Esopo, fu lui a dare alla favola il suo carattere definitivo (il genere divenne oggetto di letteratura, codificato, con una sua dignità e una sua autonomia lessicale): un breve componimento frutto di fantasia, in stile semplice e piano, chiaro, che da una vicenda – i cui protagonisti sono quasi sempre animali (ma non solo animali) che pensano e parlano e che rappresentano, o meglio incarnano, le tendenze, i difetti e le virtù degli uomini – ricava un insegnamento morale “impartito”, esplicitato, quasi sempre alla fine del testo, con una frase concisa, un aforisma, di facile comprensione, che sintetizza e condensa la scena raccontata.

Anche se taluni studiosi mettono in dubbio la sua reale esistenza, vale un dato, e cioè, che, comunque sia, a noi è arrivata una ricca collezione di favole interamente attribuita al suo nome.
Chissà se Esopo, quando oltre duemila anni fa scrisse le sue favole, avesse lontanamente immaginato che quel suo filone narrativo avrebbe proseguito fino ad oggi, ad esercitare una sicura, grande, attrattiva!
Le trentatre favole, scelte tra le quattrocento arrivate fino a noi, qui proposte da Salvo Galiano, Adalberto Magnelli e Gaspare Cucinella ai lettori ne sono una esplicita certificazione.
E qui alla domanda iniziale fa pendant quella che si sono posti Adalberto Magnelli e Salvo Galiano nella “Introduzione”: «cosa significa oggi presentare, o meglio, ripresentare una scelta delle favole di Esopo?».
Per la risposta chiamiamo in scena gli stessi protagonisti delle favole, …diamo a loro la parola. (Si ricordi che il termine “favola” deriva dalla parola latina “fabula”, che a sua volta deriva dal verbo intransitivo “fari” che significa “parlare”).
Sentiamo, allora, chi parla!
1) Parlano gli animali (le favole con loro come protagonisti sono quelle più numerose).
Espressiva quella battuta di Victor Hugo: «Il cane è la virtù che, non potendo farsi uomo, si è fatta animale»!

Ciacuno di questi ricopre un suo ruolo fisso. Qualche esempio: il lupo, il leone ed il serpente, ad esempio, sono simboli della malvagità e della prepotenza dei più forti; la pecora e l’asino sono simboli della rassegnazione, della debolezza, della sottomissione al potere; la volpe è simbolo dell’astuzia... e così via.

Agli animali spetta il compito di impersonare vizi e qualità negative e positive degli uomini (dietro le fattezze animali si nasconde l’identità di specifici tipi umani), così da renderli veri e propri stereotipi degli aspetti più variegati della natura umana, senza che si debba precisarne le caratteristiche singole: porcellino, pecore; capretto, lupi (uno che suonava il flauto; uno con un airone;  uno con una capra; uno con una vecchia e un bambino); capra, asini (uno protagonista solitario; uno con un mulo, entrambi che portano un carico uguale; uno con una volpe e un leone); volpi (una con un taglialegna; una con il becco nel pozzo; una con un cane); cervi (uno alla fonte; uno con un leone ed uno ammalato); cani (uno con una conchiglia ed uno con un gallo e una volpe); un usignolo ed uno sparviero; una zanzara e un leone; una rana e un bue.

2) Parlano gli dei (in conversazione o interlocuzione con animali e/o con persone): Zeus e il pudore; gli uomini e Zeus; Zeus e le api; una schiava brutta e Afrodite; una gatta e Afrodite; un taglialegna ed Ermes.

3) Parlano gli uomini (in alcuni casi in conversazione o interlocuzione con animali): una moglie e un marito ubriacone; una vecchia e un medico; un taglialegna e una volpe; un indovino; un uomo e una volpe; un lupo e una vecchia e un bambino; un fabbro col suo cane; un contadino e i suoi figli; un viandante e la verità, un assassino.

4) Parlano le cose e/o alcuni elementi della natura: la lampada e il sole, il muro e il chiodo.

Ed il loro linguaggio è universale: al di là delle descrizioni degli elementi legati al contesto sociale e culturale dell’epoca, le favole qui raccontate contengono un messaggio di fondo che è difficile deviare e non imprimere nella memoria, che ha una portata che oltrepassa limiti temporali e confini geografici e sociali e ne garantisce la contemporaneità, l’attualità, la freschezza del quotidiano.

Come i protagonisti su elencati, così la struttura e lo schema ricalcano, opportunamente, quelli esopiani.
Una struttura essenziale, dalla semplicità e linearità descrittiva, che trova radici e fortuna nello spirito e nel dialetto popolare e rivela una vena di realismo comico che, anche se elementare, è efficace: una situazione iniziale che presenta i protagonisti (premessa); segue una scena, di solito dialogata in modo naturale e scorrevole, familiare, in cui si svolge l’azione che descrive aspetti tipici della vita quotidiana (aneddoto); a concludere è un commento che fornisce l’insegnamento nascosto (la cosiddetta “morale”).
Anche la morale è quella stessa indicata da Esopo:  “correggere le cattive abitudini”, che hanno come sostanza nella umana commedia non le leggi e la virtù, ma il capriccio, l’arbitrio, l’ipocrisia, il volere apparire,  l’astuzia, la forza, la prepotenza, il sopruso, la prevaricazione sui più deboli, l’ingiustizia, la crudeltà dell’animo umano, la stupidità e la vanità; fornire modelli di comportamento; guidare al rispetto verso sé stessi e gli altri; promuovere i valori della società in cui i protagonisti operano e vivono.

Appropriata l’intuizione di Salvo Galiano di realizzare quei suoi simpatici acquerelli qui riprodotti (le favole si prestano bene ad essere illustrate o animate: “disegnare una favola” è uno dei modi migliori per far passare i messaggi) che – come si fa notare nella “Introduzione” – tentano «di cogliere “l’attimo” essenziale del racconto, quasi a fissare con una istantanea il senso […], il significato, che» a lui stesso, ad Adalberto Magnelli e a Gaspare Cucinella «è sembrato di individuare nelle pieghe della narrazione, che può allargarsi a rappresentarla come un immaginario cortometraggio».

L’insieme costituito dal testo dialettale composto da Gaspare Cucinella, da quello reso precedentemente in italiano da Adalberto Magnelli e dalle illustrazioni di Salvo Galiano, nonché – per chi lo ha conosciuto ed ha ascoltato le sue “recitazioni” – anche dalla voce del citato, indimenticabile Gaspare (sembra che quel suo «L’haiu vistu a lampiari / Vi vogghiu riri i me favuli / e poi scumpariri /comu sacciu parrari iu // Sentu l’armali / Parrari cu mia» riecheggi man mano che scorrono i righi. La voce indubbiamente ha la sua importante funzione nel creare una relazione con il pubblico), richiama l’arte del narrare, la funzione del cantastorie che andava girovagando da un paese all’altro.

Chissà che un giorno o l’altro non si trovi un facoltoso personaggio che, sollecitato da questa pubblicazione, volendo emulare le scelte di Luigi XIV, re di Francia, appassionato lettore delle “Favole” – che fece realizzare alla reggia di Versailles un labirinto al cui interno si trovavano trentanove fontane e statue a simboleggiare i racconti che più lo avevano colpito –, faccia altrettanto presso una propria villa con le trentatre favole qui presentate!

Concludendo, va da sé (nasce spontanea) che alle due precedenti domande se ne aggiunga una terza. In confidenza tra noi… «venticinque lettori» (come scherzosamente quantificò il Manzoni nel primo capitolo de “I promessi sposi” quelli che poi non furono – e non lo saranno – affatto venticinque, ma di gran lunga più numerosi): crediamo ancora nelle favole? Se sì, siamo in reciproca, buona compagnia.
Siamo in presenza, infatti, di un corpus che si fa percorso didascalico-didattico, lezione di vita, sempre attuale.

E, poi, sempre in confidenza – unendoci idealmente a Gaspare Cucinella e a Salvo Galiano e ad Adalberto Magnelli (oltre che come traduttore, ne colgo anche il ruolo e lo stile, seppur non visibili, di curatore editoriale o editor), – non ci dispiacerebbe davvero (e gli spunti non mancano) che gli animali potessero parlare ed assumere atteggiamenti umani!
Sarebbe bello! Perché… «o mythos / o logos deloi oti», la favola insegna che… ecc. ecc.
Anche “illic et nunc”, qui e ora, nei nostri luoghi e nel nostro tempo.

Buona lettura!

                                                                      Ino Cardinale
Presidente Associazione culturale
                 "Così, per... passione!", Terrasini